venerdì 17 ottobre 2008

Pensieri sull'Acquabella

Quando nel 1959 alcuni milanesi arrivarono inaspettatamente a Prata Principato Ultra, dimenticato paese della provincia di Avellino, Maria aveva già due figli e un marito, Antonio, emigrato in Svizzera; Maria era contadina, come tutti al suo paese, e proprio in cerca di contadini quei milanesi erano scesi nel Meridione: essi intendevano assoldare nuove braccia per lavorare un terreno in zona Lambrate, una vasta coltivazione di ortaggi che riforniva le mense di alcune delle più grandi comunità di Milano, Ospedale Maggiore compreso. Maria non ci pensò su molto, perché la miseria è da sempre un grosso incentivo alla mobilità, e accettò la proposta di seguire un gruppo di suoi concittadini nel viaggio in treno attraverso l’Italia, che si sarebbe intrapreso nei giorni successivi; ai figli, che rimanevano al paese, avrebbe pensato la suocera.
Fu così che un nutrito gruppo di migranti da Prata arrivarono una sera alla stazione Centrale di Milano, con le loro valigie di cartone portate a spalle e i volti così diversi da quelli dei lombardi che li attendevano con i camion per portarli alle loro abitazioni, le cascine della periferia est della città. I viaggiatori locali guardavano i nuovi arrivati con un certo stupore, non mancando di notare la loro povertà; guardavano in particolare Maria, che nel viaggio aveva perso gli zoccoli, e ora camminava scalza per le banchine della stazione.

Da quel giorno è passato quasi mezzo secolo, e la famiglia di Maria non si è più mossa dalla cascina Acquabella, che oggi corrisponde al’indirizzo civico di via Rombon 100; i figli sono diventati grandi, sono usciti di casa, ma forse Maria e il marito, ormai ultraottantenni, non potranno festeggiare i cinquant’anni in cascina perché da tempo loro e le altre due famiglie che vi abitano sono sotto sfratto esecutivo. Maria e Antonio sperano in una casa popolare dal comune, un’altra famiglia si è rassegnata al trasloco, chi invece non si rassegna è l’unico contadino, anch’egli ultraottantenne, che ostinatamente continua a lavorare un po’ di terra, così come ha fatto negli ultimi venticinque anni da quando è disceso dalla val Taleggio alla borgata milanese; con lui non si rassegna la piccola arca di Noè che lo circonda: quattro vacche da latte, alcuni vitelli, tre asini e qualche pony, galline ovaiole, superbi pavoni, oche combattive, cani e gatti. La cascina è però ormai stretta d’assedio dai lavori per il riassetto stradale di via Rombon, che prevede un groviglio di nuovi e imponenti svincoli e, forse, l’immancabile centro commerciale.

Eppure il tema del rapporto con l’ambiente, della socialità da ricostruire a partire da piccoli nuclei di famiglie è un tema all’avanguardia. Nel 2010, in via Oslavia, a meno di un kilometro in linea d’aria dalla cascina Acquabella, sull’area ex industriale Minerva-Lambretto, dovrebbe sorgere la prima Urban Farm (traduzione: “fattoria urbana”, ma in inglese ha tutto un altro tono), un progetto di cohausing ovvero di “vicinato elettivo” in cui gruppi di famiglie scelgono di condividere alcuni spazi comuni, in edifici creati appositamente. Nello specifico si tratterebbe di una costruzione di cinque piani nella quale, oltre a 30-36 appartamenti, troverebbero spazio alcuni giardini pensili che funzionerebbero, penso, come orti comuni. La cooperativa che gestirà tale progetto verrà costituita nel prossimo mese di dicembre.

Che dire? Ricchezza e contraddizione del nostro quartiere, prima agricolo, poi industriale, ora nuovamente residenziale ma eco-sostenibile… Però è anche un segno dei tempi della nostra civiltà, della sua fretta, dell’ingratitudine della smemoratezza, e talvolta anche della crudeltà delle nostre città. Dei ritmi insomma un po’ sbalestrati, in cui ci si mette già a ricostruire quello che ancora non si è finito di distruggere. Per questo non possiamo non guardare con simpatia all’Acquabella e ai suoi abitanti, ed augurarci che, a quest’ultimo retaggio di mondo agricolo del nostro territorio, non venga tributata una fine ingloriosa che davvero non meriterebbe.

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